L’Effetto Alone (o Halo Effect, in inglese) è un tipo di pregiudizio cognitivo per cui l’impressione generale – solitamente la prima – che abbiamo di una persona influenza il modo in cui sentiamo e pensiamo ad altre caratteristiche della sua personalità, come l’intelligenza o il carattere. In altre parole, l’impressione generale che si ha di un individuo (“Che persona attraente!”) influisce sulla valutazione di suoi altri tratti specifici (“È anche simpatica e intelligente!”). Le percezioni di una singola caratteristica, dunque, possono influenzare il modo in cui le persone percepiscono altri aspetti di quella persona.
Il termine fu utilizzato per la prima volta dallo psicologo americano Edward Lee Thorndike, in un articolo del 1920 intitolato “The Constant Error in Psychological Ratings“. Nell’esperimento, l’autore chiese ad alcuni ufficiali militari di valutare una serie di caratteristiche nei loro soldati subordinati: queste qualità includevano aspetti quali la leadership, l’aspetto fisico, l’intelligenza, la lealtà e l’affidabilità. Scoprì che valutazioni elevate di una particolare qualità erano correlate a valutazioni elevate anche di altre caratteristiche, mentre valutazioni negative di una specifica qualità portavano anche a valutazioni più basse di altre caratteristiche. Nello specifico, Thorndike rilevò come i sottoufficiali fisicamente attraenti erano valutati anche intelligenti, con buone capacità di leadership e di buon carattere.
QUALE SPIEGAZIONE PER QUESTO FENOMENO PSICOLOGICO?
Diverse teorie che hanno esaminato la formazione delle impressioni suggeriscono che gli effetti alone sono più frequenti nell’elaborazione primaria delle informazioni, che è più veloce e assimilativa (Gilbert, 1991; Jones, 1990). In altre parole, quando ci costruiamo le valutazioni sugli altri, la maggior parte delle volte mostriamo la propensione a formarci un’immagine ideale di quella persona partendo da ciò che ci mostra ad una prima impressione e/o da ciò che già conosciamo, piuttosto che affidarci ad informazioni più oggettive o comunque frutto di una conoscenza più approfondita.
Nella comprensione di questo fenomeno, dobbiamo inoltre tener presente che il nostro cervello ha la tendenza a semplificare la complessità degli stimoli provenienti dall’esterno, in modo da poterli elaborare più facilmente: l’Effetto Alone, in questo senso, potrebbe rappresentare una “scorciatoia” cognitiva per elaborare gli stimoli in modo più rapido.
EFFETTO ALONE E ASPETTO FISICO
In particolare, la bellezza è una delle variabili più determinanti nell’Effetto Alone (cfr. Dion & al., 1972; Luker & al., 1981), tanto che esso viene definitivo anche come principio del “ciò che è bello è anche buono”: l’aspetto fisico è la caratteristica più immediata che osserviamo in qualcuno ed è anche quella che più delle altre è in grado di stimolare l’effetto alone.
Nel 1972, gli autori Dion e Berscheid hanno condotto un esperimento sulla relazione tra attrazione fisica ed Effetto Alone: allo studio parteciparono 60 studenti della University of Minnesota, divisi equamente tra maschi e femmine. A ciascuno studente furono fatte vedere tre foto diverse da esaminare: una di un individuo attraente, un’altra di una persona con attrattività fisica nella media, e un’ultima fotografia che ritraeva un individuo poco attraente. Ai partecipanti fu chiesto di giudicare i soggetti di ogni foto, scegliendo tra 27 tratti di personalità diverse, tra cui l’altruismo, la convenzionalità, l’affermazione di sé, la stabilità, l’emotività, l’affidabilità, l’estroversione, la gentilezza, e la promiscuità sessuale, e successivamente fu chiesto di prevedere il grado di felicità dei soggetti di ogni foto (felicità coniugale, felicità genitoriale, felicità sociale, felicità professionale). Infine, agli studenti fu chiesto di inferire lo status socio-lavorativo dei soggetti, che poteva essere elevato, medio o basso.
Dai risultati emerse che la gran parte dei partecipanti riteneva che le persone più attraenti avessero caratteristiche di personalità socialmente più desiderabili rispetto ai soggetti mediamente o poco attraenti. Gli studenti, inoltre, avevano l’impressione che le persone attraenti conducessero una vita generalmente più felice, con matrimoni più felici, che fossero migliori genitori, e che avessero una carriera di successo più brillante rispetto agli individui meno attraenti.
Uno studio più recente condotto da Griffin e Langlois (2006), ha cercato di determinare l’eventuale vantaggiosità di un volto attraente: in generale, è emerso che le donne con volti poco attraenti sono svantaggiate rispetto alle donne con un volto molto o mediamente attraente.
Come interpretazione dei risultati ottenuti, gli autori hanno ipotizzato che: 1. i volti non attraenti, come le espressioni di rabbia e paura, suscitino un’eccitazione fisiologica differenziale e un’attivazione neurale di maggiore entità rispetto a quella suscitata da volti più attraenti; 2. i volti non attraenti suscitino le stesse risposte fisiologiche e neurofisiologiche (ad es, attivazione nell’amigdala) come espressioni di emozioni negative a causa dell’ipergeneralizzazione degli affetti (cfr. Zebrowitz, 1997) o dell’ipergeneralizzazione anomala dei volti (Zebrowitz, Fellous, Mignault, & Andreoletti, 2003); e/o 3. i volti non attraenti generano forti reazioni fisiologiche e cognitive perché richiedono più tempo per essere categorizzati o riconosciuti come volti rispetto ai volti più attraenti.
EFFETTO ALONE E UMORE
Nel 2011, lo psicologo sociale australiano J.P. Forgas ha condotto un esperimento che ha dato rilievo ad un’altra variabile che sembrerebbe favorire il fenomeno psicologico noto come Effetto Alone, ovvero l’umore: nel suo studio, il ricercatore ha chiesto ai partecipanti di formarsi delle impressioni su alcune caratteristiche dell’autore di un breve saggio filosofico che aveva chiesto loro di leggere, nonché sulla qualità del saggio stesso. Oltre al saggio, Forgas ha fornito anche un’immagine del presunto autore: agli studenti dava una foto che ritraeva un uomo di mezza età con gli occhiali (il “tipico” filosofo accademico) oppure l’immagine di una giovane donna vestita in modo casual.
Come prima cosa, ai partecipanti è stato chiesto di ricordare, rivivere e scrivere alcune righe su un episodio felice/euforico o triste/deprimente del loro passato. L’ipotesi dell’autore era, infatti, che anche l’umore dei partecipanti potesse in qualche modo influenzare i loro giudizi. Effettivamente, dalle conclusioni della ricerca è emerso che l’umore aveva avuto un’influenza significativa sulla valutazione del saggio: i soggetti ai quali era stato stimolato un umore negativo sono stati più critici nei confronti del saggio rispetto al gruppo di controllo e al gruppo che invece aveva ricordato eventi felici ed era quindi di umore positivo, stato che avrebbe stimolato una strategia di elaborazione delle informazioni più superficiale e semplificata. Come ipotizzato, dunque, l’umore positivo aveva aumentato l’Effetto Alone e quello negativo lo aveva diminuito.
Inoltre, anche l’Effetto Alone in relazione al genere e all’età è risultato significativo: il saggio è stato valutato più positivamente quando è stato attribuito a uno scrittore maschio di mezza età piuttosto che a una giovane donna.
IN CHE MODO L’EFFETTO ALONE INFLUISCE SULLE RELAZIONI?
L’Effetto Alone si manifesta in molti ambiti della nostra vita, tra cui quello relazionale. Come abbiamo visto, esso è un pregiudizio che ci porta ad attribuire molte qualità positive a qualcuno dopo aver visto anche solo una sua caratteristica “buona”: l’alone parte proprio da quella unica buona qualità che ci impressiona per prima.
Questo potrebbe indurci a credere che una persona con cui approcciamo una relazione possieda qualità simili a quell’“alone”, e di conseguenza tendiamo a spiegare e adattare i nostri e i loro comportamenti in base ad esso. Questo fenomeno porta con sé il rischio di rovinare le nostre relazioni per una serie di motivi, primo tra tutti il fatto che un giudizio, una volta espresso, è difficile da modificare, soprattutto se coinvolge i nostri sentimenti: quando esprimiamo una valutazione affrettata sul nostro partner, faremo molta fatica a riconoscere che la valutazione di quella persona potrebbe essere stata imprecisa.
In secondo luogo, l’Effetto Alone comporta una inadeguata valutazione delle imperfezioni: quando si inizia gradualmente a realizzare che il partner che non è così perfetto, si cade nella trappola del cercare giustificazioni per il suo comportamento o le sue azioni. Quello che, però, si sta effettivamente facendo è tentare di convalidare i nostri giudizi iniziali sulla persona amata, e il rischio è quello di ritrovarci in una situazione che, a lungo andare, ci porterà sofferenza.
È dunque utile affidarci al vecchio adagio “la prima impressione è quella che conta”? Con elevata probabilità, la risposta è NO.
Bibliografia
Dion, K. K.; Berscheid, E; Walster, E (1972). “What is beautiful is good”, Journal of personality and social psychology, 24, 3, pp. 285–90.
Forgas, J. P. (2011). She just doesn’t look like a philosopher…? Affective influences on the halo effect in impression formation. European Journal of Social Psychology, 41(7), 812–817. https://doi.org/10.1002/ejsp.842.
Griffin AM, Langlois JH. (2006). Stereotype Directionality and Attractiveness Stereotyping: Is Beauty Good or is Ugly Bad? Soc Cogn. Apr;24(2):187-206. doi: 10.1521/soco.2006.24.2.187. PMID: 17016544; PMCID: PMC1447532.
Thorndike, E. L. (1920). “A Constant Error in Psychological Ratings”, Journal of Applied Psychology, 4, 1, pp. 25-29.